Evidentemente aveva ragione il mio amico Luigi Sfredda quando mi chiedeva: ma stiamo parlando di un reddito di cittadinanza o di un reddito di inclusione?

Di questi tempi bisogna stare attenti alle parole. Anzi, bisogna sempre dare importanza alle parole (“le parole sono importanti!” diceva Nanni Moretti—video sotto). Quanto siano importanti me l’ha fatto capire l’intervista a Luigi Di Maio di due sere fa a Di Martedìdove appunto il candidato primo ministro in pectore del M5S ha volutamente enunciato il Reddito di Cittadinanza al primo posto del programma di un ipotetico governo 5Stelle. Per fortuna—devo dire—che il buon Claudio Amendola ha almeno brevemente interloquito sulla natura della proposta grillina, domandandosi appunto se la definizione “di cittadinanza” non sia un po’ forzata.

Facciamo un po’ d’ordine.

La proposta del “Reddito di Cittadinanza” del M5S consiste nell’idea di portare i meno abbienti a un reddito minimo di sussistenza, definito in base ai criteri europei come equivalente a circa €780 mensili. Chi ha un reddito ma non raggiunge la soglia riceve un’integrazione che lo porta ai 780 euro. Chi è nullatenente riceve l’intero reddito minimo. Secondo i calcoli l’intervento (che considera il reddito familiare) riguarderebbe circa 9 milioni di Italiani e 2,7 milioni di famiglie, e il costo totale annuo per lo Stato si aggirerebbe attorno ai 17Miliardi di Euro. Circa l’1% del Prodotto Interno Lordo italiano.

Questa è una proposta assistenziale. Condivisibile magari, ma assistenziale. Come giustamente intuisce Amendola, il “Reddito di Cittadinanza” di cui tanto si parla recentemente è una cosa più complessa. Grandi guru tecnologici lo sostengono.  Esperimenti di Reddito di Cittadinanza sono attualmente condotti in varie parti del mondo. Ma in entrambi i casi l’idea del Reddito di Cittadinanza è una risposta futura a una dinamica paventata di trasformazione dell’economia mondiale. In un mondo cioè dove i lavori verranno sostituiti definitivamente dai robot, bisognerà inventarsi un nuovo diritto di cittadinanza, il diritto cioè a un reddito naturale (verrebbe da dire) assegnato a tutti gli i cittadini. Soddisfatti nei loro bisogni minimi, i cittadini di questo futuro potranno dedicare il tempo all’educazione, alla sperimentazione, alla ricerca di occupazioni che valorizzano i talenti dell’individuo, o a lavorare meno ore al giorno per mansioni frustranti. Ma questa, ripetiamo, è una speculazione sul futuro possibile della civiltà tecnologica. E’ vero pure che siamo già quasi nel futuro. Ma nel frattempo alcuni lavori ancora ci sono, non sono ancora stati mangiati tutti dai robot. E c’è anzi chi è pronto a scommettere che con adeguate politiche i lavori possano tornare a crescere e magari anche a pagare dei salari decenti (il premio noble Stiglitz, per esempio). Quindi per adesso la politica ha ancora due compiti fondamentali: deve da un lato aiutare chi non ce la fa, ma dall’altro deve individuare delle politiche che creino lavori e prodotto interno lordo. Cioè assistenza da un lato e politiche pubbliche creatrici di prodotto dall’altro.

Che è esattamente ciò che cercano di fare (quasi) tutti i governi, incluso quello italiano attuale e quello precedente. La proposta 5Stelle cioè non è altro che una versione più costosa del reddito di inclusione renziano, una misura più larga e più sistematica ma pur sempre assistenziale. Come assistenziale era anche il bonus fiscale (gli 80€), di cui molti si fanno beffe.  I 17 miliardi di spesa pubblica del reddito di cittadinanza non sono “investimenti che aumentano la capacità produttiva del paese”. Sono un aiuto alla povertà, né più né meno.

E’ vero che se si aumentano i redditi bassi, molta parte di quegli aumenti finiscono in consumi, i quali a loro volta fanno crescere il Prodotto Interno Lordo, e probabilmente di un po’ anche l’occupazione. Ma se per finanziare questo intervento assistenziale lo Stato riduce altra spesa pubblica (tagli ai dipendenti pubblici?) o aumenta le tasse, ecco che l’effetto espansivo sul PIL diminuisce o si neutralizza. Certo M5S, quando lo si pungola con la domanda “ma dove li troviamo i soldi?”, risponde che con la lotta alla corruzione si possono recuperare 60 miliardi. Ma sappiamo anzitutto che quel calcolo non ha basi scientifiche. E sappiamo pure che prima che una legge anticorruzione produca effetti nelle casse pubbliche, ammesso e non concesso che si trovi la formula magica per eliminare la corruzione, passano probabilmente degli anni. C’è forse chi conosce di quanto, con le cimici di Romeo, Lotti e del Generale Del Sette—assumendo per verità l’ipotesi accusatoria—sarebbe aumentata la spesa dello stato per l’assegnazione degli appalti Consip? E nel mentre facciamo questi calcoli, aumentare il debito pubblico di un 1% per il reddito di cittadinanza implicherebbe più spesa in interessi passivi sul debito e quindi ancora più debito e così via, nel classico circolo vizioso dell’interesse composto. Insomma, potenzialmente un piccolo caos.

Questo perché, ripetiamo, il reddito di cittadinanza non è di per sé un investimento che aumenta la capacità produttiva del paese. E’ un intervento assistenziale.

Ma se è assistenza e non investimento, non si possono allora criticare gli interventi assistenziali renziani, cioè il bonus di 80€ (costo per le casse pubbliche circa 6 Miliardi nel 2015) o il reddito di inclusione (costo per casse pubbliche 1600Miliardi). Non li si può criticare—come ha fatto Di Maio—in quanto avrebbero sperperato la flessibilità sui conti che l’Unione Europea ci aveva concesso, senza usarli per investimenti produttivi. Perché anche il reddito di cittadinanza dei M5S lascerebbe la situazione economica tale e quale. Anzi forse la peggiorerebbe, perché costa di più e potrebbe far precipitare ulteriormente i conti.

Il Reddito di Cittadinanza di cui si parla in tutto il mondo è un’idea applicata a un mondo in cui i robot avranno permanentemente cambiato il sistema produttivo, e spinto le disuguaglianze a un livello tale per cui una fetta sempre più grande delle popolazioni si trova in condizioni di povertà. Adesso siamo invece in una fase interlocutoria, in cui si specula che questo cambiamento permanente potrà un giorno accadere a causa dei piloti automatici, dei bots, dell’internet delle cose e all’intelligenza artificiale in genere. Ma siccome non siamo ancora là, lo spazio è aperto per inventarsi oggi politiche che migliorino il sistema produttivo in senso inclusivo e progressista. Va bene il reddito di cittadinanza, ma quali sono le politiche che Di Maio ha in mente per aumentare il Prodotto Interno Lordo? Qualcosa di non generico qua e là si sente (meno tasse alle piccole impresesvalutazione competitiva—qualora si uscisse dall’Euro) ma è chiaro come il giorno che l’enfasi usata da Di Maio e dai Cinquestelle su questi argomenti è MOLTO MINORE di quella usata quando parlano di Minzolini, di anticorruzione, di ambiente e di reddito di cittadinanza. Per il semplice motivo che i conti non ce li hanno, e sanno benissimo che le previsioni sugli effetti di politiche economiche sono un campo minatissimo.

Di Maio è intelligente, diligente e fa bene i compiti a casa. Si sente che butta là i concetti giusti e i più recenti (cito con parole mie: “il debito per investimenti è un debito virtuoso”, “la filosofia della legge Severino non assegna al parlamento un potere di veto ma solo di certificazione”). Però nella foga e—chissà—nel calcolo politico mescola cose vere a cose non vere.

 

Le parole sono importanti? Dipende dal punto di vista. Per Di Maio usare questi concetti in modo semplificato aumenta il consenso elettorale. La vendita del reddito di cittadinanza è già stata vinta, su questo non c’è dubbio. Molti italiani sono talmente angosciati che, giustamente, quest’esperimento lo vogliono fare subito. Perché no? Ma appena guardiamo un po’ più in là, oltre il calcolo elettorale, allora le parole diventano importanti perché, se non ci si capisce, e nella confusione delle proposte lasciamo andare avanti proposte che peggiorano le cose, allora rischiamo di essere noi—l’Italia—la prossima Grecia.